LINGUA E CULTURA 28 giugno 2022
In una società sensibile all’inclusività sotto ogni forma, che si sforza di riconoscere diritti e opportunità a chi non li ha, il dibattito sull’equità tra uomo e donna è ancora molto attuale.
Pur trovando radici in tempi antichi, infatti, la lotta alle discriminazioni di genere ha di fronte a sé muri ideologici che sembrano invalicabili, spesso celati dietro modi di parlare ritenuti imprescindibili.
Di queste abitudini linguistiche la grammatica italiana ne è ricca, ragion per cui continua a essere oggetto di riflessioni e dibattiti che mirano a proporre nuove e fantasiose idee per “mallearla” nel modo più neutrale e inclusivo possibile.
Il genere neutro è una caratteristica strutturale della grammatica di alcune lingue. Esistono lingue completamente neutre (come l’estone, il finlandese e il cinese), lingue con sostantivi e forme verbali a prevalenza neutra (come l'inglese) e lingue dalla grammatica binaria (come l'italiano e le lingue romanze) che indicano cose, animali e persone utilizzando la forma maschile OPPURE quella femminile.
«Un linguaggio neutro sotto il profilo del genere indica, in termini generali, l'uso di un linguaggio non sessista, inclusivo e rispettoso del genere.»
Bella domanda, e non ci sarebbe neanche tanto da scherzare in realtà. Sì, perché numerose sono le tesi linguistiche (e non) che si sforzano di avvalorare elaborate proposte per risolvere una volta per tutte il problema della discriminazione linguistica nelle grammatiche binarie.
Un asterisco o uno schwa [ə] al posto di -a e -o in chiusura delle parole, ad esempio, oppure la creazione di un genere grammaticale nuovo di zecca in -u, sono solo alcune delle idee avanzate da chi ha deciso di prendere di petto il problema della "lingua sessista".
Ma una lingua è davvero sessista, se chi la parla non lo è?
Prendiamo ad esempio una bambina che dichiara: «I miei amici sono tutti simpatici». I più sensibili ai cavilli linguistici noteranno l’uso del maschile collettivo nella frase pronunciata dalla bimba; tuttavia, con molta probabilità, nessuno insinuerà che la piccola abbia voluto deliberatamente escludere le bambine dalla sua cerchia di simpatie.
Questo esempio aiuta a capire, anche se in maniera un po’ semplicistica, che il pensare con equità nei confronti dei generi non sempre riesce ad andare di pari passo con l'esprimersi in tal senso. Questo perché, nonostante la sua meravigliosa perfezione, la struttura binaria della lingua italiana impone di scegliere quando si parla, tra il maschile e il femminile, tra l'uomo e la donna.
Quindi è davvero tutta colpa della grammatica?
Non esattamente. Anche se da un lato le regole grammaticali dell'italiano "autorizzano" a ritenere che il maschile sia un genere onnicomprensivo di diritto, dall'altro è anche vero che abbiamo a disposizione interessanti strumenti per scegliere di presentare un messaggio con un linguaggio più inclusivo e rispettoso dell'identità di genere di chi ascolta.
Prima di proseguire è necessario fare una premessa: per quanto possa essere importante l'argomento dell'equità di genere per chi scrive in italiano, è fondamentale ricordare che il compito di chi traduce resta quello di rendere con fedeltà e accuratezza un testo da una lingua a un’altra, rispettando le intenzioni di chi l’ha scritto.
Ciò vuol dire che, se è chiaro che l'autore o l’autrice di un documento utilizzi intenzionalmente un linguaggio specifico sotto il profilo del genere, o addirittura discriminatorio, la traduzione italiana DOVRÀ rispettare tale intenzione.
L’alternativa? Scegliere di non tradurre.
Detto questo, nel caso (fortunatamente più frequente nei testi moderni) in cui il contesto non offre conferma di alcuna preferenza di genere nella formulazione di un messaggio, conoscere le regole grammaticali dell’idioma in cui esso viene pensato (lingua di partenza) e di quello in cui viene trasmesso (lingua di arrivo) è fondamentale per evitare di rappresentare discriminazioni di genere non volute o, in molti casi, esplicitamente vietate da chi ha redatto il testo originale.
Nella traduzione marketing, ad esempio, sempre più aziende scelgono di comunicare il proprio brand attraverso un linguaggio più attento alle differenze di genere del pubblico a cui si rivolgono. Come anche nella traduzione di testi legislativi, è fondamentale garantire la trasposizione del messaggio originale in modo ugualmente equo, inclusivo e rispettoso dei diritti di tutti, indistintamente dal genere di appartenenza.
Per maschile sovraesteso, anche detto generalizzato o inclusivo, si intende quella regola della grammatica italiana per cui, basta che un solo uomo sia presente in un gruppo di persone, si declina tutto al maschile plurale.
Ad esempio: accogliere i clienti in un negozio, assistere gli utenti di un servizio, avere tanti amici ecc.
Nelle linee guida prima citate, il Parlamento Europeo suggerisce alcuni orientamenti pratici volti a rimuovere abitudini grammaticali che, come il maschile sovraesteso, nascondono la controparte femminile dal discorso, escludendola.
Nel suggerire espressioni come “la magistratura, il personale docente” anziché “i magistrati, i docenti”, il documento consiglia di utilizzare il più possibile nomi collettivi per indicare gruppi eterogenei o indefiniti di persone.
Ecco alcuni esempi di traduzione dall'inglese:
Nei testi di marketing in particolare, che hanno la necessità di rivolgersi a un pubblico il più possibile eterogeneo per garantire la piena visibilità di un prodotto, è frequente anche l'uso di pronomi indefiniti (chi/chiunque) per aggirare il maschile collettivo. Per esempio:
In italiano, il maschile neutro è l’uso della forma maschile per indicare persone di entrambi i generi.
Espressioni come l'uomo della strada o l'addetto di turno, ad esempio, utilizzano la forma maschile in modo "neutro", nel senso che definiscono un concetto piuttosto che una persona di sesso maschile nello specifico.
Che sia una soluzione alquanto pratica è innegabile, soprattutto quando esplicitare lo stesso concetto in forma simmetrica (es. rivolgersi all'addetto o all'addetta di turno ecc.) rischierebbe di appesantire notevolmente la frase.
Tuttavia, l’uso del maschile neutro è ormai considerato talmente naturale in italiano, che in taluni casi arriva persino a "giustificare" l'esclusione della controparte femminile dal discorso, contribuendo ad avvalorare differenze socioculturali che la società odierna è invece attivamente impegnata a debellare.
È il caso di molti termini relativi a titoli professionali e ruoli istituzionali, che vengono difficilmente declinati al femminile perché il loro uso è ritenuto "forzato" nell'immaginario comune. Alcuni esempi? Architetto, assessore, cancelliere, chirurgo, consigliere, deputato, direttore, funzionario, giudice, ingegnere, ispettore, magistrato, medico, ministro, notaio, procuratore, rettore, revisore dei conti, sindaco, solo per citarne alcuni.
La realtà è, come aveva ben anticipato Alma Sabatini ne Il Sessismo nella lingua italiana (1987), che finché il parametro è sempre l'uomo, non si riesce a parlare di parità:
«Per parità non si intende adeguamento alla norma uomo, bensì reale possibilità di pieno sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani nella loro diversità.»
Il maschile neutro appare davanti alla penna di chi traduce più spesso di quanto si pensi. Nella trasposizione di testi pensati come impersonali, ad esempio, come quelli legislativi, i manuali di istruzioni o i moduli di iscrizione, sovente viene data priorità alla stesura di un contenuto chiaro e comprensibile, a discapito delle accortezze grammaticali rispettose dell'identità di genere di chi legge.
L'uso di nomi collettivi o della forma impersonale può aiutare a rendere anche tali testi un po' più inclusivi:
L’uso della forma maschile nelle schermate di dialogo delle app o dei siti web è anche molto frequente, e poca importanza viene data al distacco che tale scelta genera verso chi si trova a interagire in una conversazione di cui non si sente parte.
La realtà è che tradurre una UI (user interface, interfaccia utente) in lingua italiana non è per niente un lavoro meccanico, tantomeno scontato. Non ci si può affidare sempre ai traduttori automatici, per dirla in breve.
Accanto alla necessità di ridurre al minimo il numero di parole usate per far rientrare i testi di dialogo nei minuscoli (e neanche tanto) schermi dei telefonini, è necessaria infatti una buona dose di sensibilità e ragionamento logico per garantire un'esperienza d'uso naturale e fluida a ogni genere di utente.
Riscrivere la frase cambiando il soggetto o eliminando parole "superflue", usare la forma impersonale o passiva (a volte sconsigliata per non creare confusione) sono utili espedienti che possono aiutare ad aggirare il problema:
Quarto grattacapo per chi scrive e traduce in italiano sono le dissonanze. Si ha una dissonanza quando, sul principio della forma maschile collettiva, si utilizza un aggettivo o un participio passato al maschile quando i nomi sono anche (o prevalentemente) femminili.
Per chi traduce da una lingua neutra come l'inglese, che non prevede differenze di genere nelle forme verbali o aggettivali, è facile utilizzare dissonanze in modo non intenzionale.
Una strategia che può essere utile seguire in questi casi, è fare in modo che il participio sia accordato con l'ultimo sostantivo dell'elenco, dunque invertendo l'ordine degli elementi citati se necessario:
O anche, scegliendo aggettivi epiceni (di genere comune, che terminano in -e ad esempio) per mantenere la forma del messaggio il più possibile neutrale dal punto di vista del genere:
E per finire la ciliegina che vale la pena apporre sulla torta, per capire che nessuna lingua è esente da trabochetti grammaticali che possono inficiarne la neutralità, persino in inglese: il singular they, ovvero il plurale al singolare.
Presente nella lingua inglese già nel 1300, forma grammaticale a lungo dibattuta e, infine, aggiornata dall’autorevole dizionario Merriam-Webster solo un paio di anni fa, il they (loro) al singolare si riferisce all’uso del pronome di terza persona plurale inglese (they/them) per riferirsi a una sola persona. È utilizzato quando l'antecedente è un pronome indefinito, o per riferirsi genericamente a una persona di cui non si conosce il sesso. Ad esempio:
L'inglese liquida così la spinosa questione dei pronomi personali singolari (he/she, him/her), il cui uso in contesti in cui non si conosce il genere della persona di cui si parla potrebbe risultare discriminante.
A onor di cronaca, è doveroso notare che in tempi recentissimi l'uso del they singolare in inglese è stato scelto da persone di genere non-binario per identificarsi.
Questo argomento è molto complesso e merita un discorso a parte (che troverà presto spazio tra le pagine di ILink in futuro), ma per ora basti dire che, pur con il desiderio di rispettare le scelte esistenziali di ogni persona, non è stata ancora trovata una terminologia analoga in lingua italiana che possa garantire la correttezza grammaticale e, insieme, la piena inclusività di un testo in tal senso.
Partendo dal presupposto che, come qualcuno ha fatto notare, non esistono parole sbagliate, ma solo un modo sbagliato di usarle, un utile esercizio per chi traduce in lingua italiana è mettere in discussione.
Dubitare che linguaggio pratico non sempre significa correttezza di linguaggio, mettersi nei panni di chi viene descritto o di chi legge, supponendo che non si tratti SOLO di persone di sesso maschile, può aiutare a svincolarsi da abitudini grammaticali generiche, erronee o, ancor peggio, discriminanti.